IL SOTTILE EQUILIBRIO DEL VIOLINISTA SUL TETTO

Gennaio 2003 – Incontro Moni Ovadia nel camerino del teatro Comunale di Monfalcone, pochi minuti prima del suo "Violinista sul tetto". Avevo visto lo spettacolo la settimana prima a Trieste, al "Rossetti", e confesso che mi aveva lasciato perplesso. Vuoi per la fluviale lunghezza (quasi tre ore e mezza, il primo atto da solo ne dura due), vuoi per la dibattuta traduzione in yiddish delle canzoni che, almeno per me, non giovano alla scorrevolezza dello show. Tuttavia, dopo queste quattro chiacchiere, che Ovadia ha scambiato con me nonostante la fretta ("Facciamo in ogni caso l’intervista, lei mi ha aspettato e non è giusto che ritorni", mi dice. "Però nel frattempo dovrò prepararmi per la serata, non le dispiace, vero?"), ho rivalutato questo show, con la sua poesia, la sua ironia, la malinconica rassegnazione che regna nell’animo di Tevje, il lattaio ebraio protagonista del musical.
"In fondo ce ne siamo sempre dovuti andare da qualche posto, forse è per questo che portiamo sempre il cappello in testa", afferma Tevje in uno dei tanti dialoghi privati con "il Padrone dell’Universo", quel Creatore a cui non manca mai di rispetto anche quando bonariamente lo rimprovera per la sfortuna, la povertà, i soprusi subiti... E guardi con occhi diversi le prospettive sghembe delle scenografie, il tetto che troneggia al centro del palco, la notte blu illuminata da una luna luminosa e gigantesca, ispirata, come i costumi e al titolo stesso dello show, ai quadri di Chagall. "Un violinista sul tetto, che follia! Ma qui ad Anatevka, il nostro villaggio, ognuno di noi è un violinista sul tetto che cerca di improvvisare una piccola melodia senza rompersi l’osso del collo!... E come riusciamo a stare in equilibrio? Questo ve lo posso dire in una parola: la Bibbia, la Torah!" Armato solo della saggezza della parola divina, ingenuamente citata a modo suo, Tevje affronta gli amori sbagliati delle tre figlie, che alla fine accetta anche se si scontrano con i precetti e le regole della vita ebraica, perché in fondo è solo l’amore e la vita che contano; ed anche davanti alla crudeltà dell’espulsione dalle loro terre da parte dello zar antisemita, Tevje non cede mai alla violenza, scegliendo ancora una volta di partire per l’esilio.

"Il violinista sul tetto" è uno spettacolo a cui assistere preparati, dunque, per poter coglierne appieno ogni sfumatura, ogni colore, ogni nota, e lasciarsi trasportare dalla disarmata e illuminata saggezza di Tevje nell’affrontare il destino.

Di questo, e di altro, abbiamo parlato con Moni Ovadia.

Dunque, ho letto che ci sono voluti vent’anni per portare "Il violinista sul tetto" sui palcoscenici italiani...

Bè... io non è che bramavo per fare "Il violinista sul tetto", però la ragione di tutto questo tempo è semplice, ed è che faccio del teatro mio. Il mio teatro non è certo canonico, è fatto a tratti con strumenti dell’affabulazione, a tratti con strumenti simbolici, a tratti con modalità frammentarie, come una memoria che si rinnova... diciamo che lo spettacolo stilisticamente più mio è "La mamma". Però è chiaro che questo musical, a cui rimane ben poco di musical perché lo abbiamo trasformato in una sorta di teatro europeo, ho accettato di farlo perché mi occupo di questa cultura, che fa parte della mia vita artistica e personale... e a chi toccava farlo, in fin dei conti, se non a me? Ci voleva anche un produttore coraggioso, che si chiama Lorenzo Vitali, che ne ha fatto uno spettacolo di grandissimo successo, anche dal punto di vista degli incassi.

Ma la geniale idea di portare i musicisti in scena, a partecipare all’azione, chi l’ha avuta?

Vede, io sono quindici anni che lavoro con i musicisti in scena... Il musicista in scena, il musicista-attore è proprio lo specifico del mio teatro. Era il 1979, circa, quando ho cominciato a farlo, poi ho fondato la TheaterOrchestra e combattuto una battaglia pluridecennale per riuscire ad arrivare a questi livelli, un passetto dopo l’altro.

Veniamo alle traduzioni in yiddish dei testi delle canzoni...

Guardi, questa lingua è stata assassinata insieme alla sua gente...E’ passata dall’essere una lingua parlata da undici milioni di locutori, lingua vivissima, a essere pian piano parlata solo in ambiti piccoli. Noi siamo un piccolo gruppo di tessitori che cerca di portarla avanti... Allora io non avrei mai potuto fare "Il violinista" in inglese, e in italiano men che meno... Perché questo mondo parlava in yiddish, e lo yiddish non è una lingua traducibile, in quanto è una lingua di esilio, che contiene altre lingue, un po’ lingua letteraria e un po’ dialetto, così cosmopolita... Ho fatto perciò questa scelta, fidandomi dell’intelligenza del pubblico, anche se qualche mugugno c’è stato. Ma io sono anni che lavoro con lo yiddish, perciò... sono molto felice di questa scelta, tra l’altro apprezzata dalla stragrande maggioranza del pubblico.

L’uso dei sopratitoli avrebbe giovato alla comprensione, però...

No, perché la gente avrebbe fatto su e giù con la testa per leggere la traduzione, sono totalmente contrario ai sopratitoli. Per questo abbiamo fatto un bellissimo programma di sala, dove si trovano, su quattro colonne, i testi delle canzoni trascritte con i caratteri ebraici, la loro traslitterazione - casomai qualcuno un domani volesse cantarsi qualcosa in yiddish -, l’originale inglese del musical e la traduzione in italiano. E poi le canzoni sono inerenti al tema, si integrano nella trama, fosse tutto lo spettacolo in yiddish capirei, ma così...

Tra l’altro in scena ci sono molti artisti stranieri...

Si. Vede, io faccio un piccolo lavoro, di cui vado orgoglioso: portare in questo paese, che tanto ne ha bisogno, un po’ di cosmopolitismo. E in una Europa che si sta aprendo, soprattutto all’est, io sto cercando con forze molto modeste di costruire una forma di teatro europeo. Ci vuole molto, molto lavoro, ma il fatto di riempire i teatri con questo spettacolo forse è già un segno, significa che la gente è curiosa...

Ma a quanti si avvicinano al suo tipo di teatro, con questo musical, per la prima volta, che cosa consiglia?

Consiglio di non abituarsi! Cioè, di pensarlo come qualcosa di mio, ma senza pensare di aver visto tutto!

Francesco Moretti

 

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